Donald Martiny
DONALD MARTINY

Testo critico: Barba Luciana Cenere

11 maggio 2019 - 20 giugno 2019
Viaggio 12


I love to imagine what it must have been like for the first person to draw an image (…) It is interesting to think of creating an image when no imagine existed before”.




Le parole di Donald Martiny racchiudono l’essenza dei lavori prodotti all’incirca nell’arco dell’ultimo decennio. Colorate, vibranti e decisamente imponenti, le opere di Martiny sono delle vere e proprie pennellate che, date le poderose dimensioni che le contraddistinguono, difficilmente lasciano indifferente lo spettatore. I suoi manufatti, del resto, appaiono come fortemente impattanti, sia dal punto di vista spaziale che materico.


Lo stile dell’artista intriga, stuzzica, invoglia e, nonostante il concetto di “gusto” appaia difficile da definire quando parliamo di arte contemporanea, un fattore è rimasto senz’altro inalterato nel corso degli anni. Quando ci approcciamo a delle opere di tipo pittorico / figurativo c’è un dettaglio che, spesso, ci colpisce in modo particolare: il colore, o meglio, la modalità attraverso cui questo viene impresso sul supporto prediletto. Quale sarebbe la nostra reazione se queste pennellate, che tanto ci affascinano, fuoriuscissero dalla cattività della cornice per venire a invadere il nostro spazio di azione?


Ed è così che queste palpitanti brushstrokes prendono vita e, alzandosi, portano sul piano scultoreo, verticale, quei tocchi di colore che, dalla tela, si ritrovano a danzare sulle pareti, entrando di fatto in un vero e proprio dialogo con la nostra presenza che ne rimane, inevitabilmente, intrigata.


In maniera estremamente naturale iniziamo, mediante queste operazioni, a familiarizzare con la personalità dell’artista, con il suo modo di lavorare e con il suo approccio ai materiali. Nonostante la semplicità che le caratterizza, le opere di Martiny non sono un prodotto casuale, non sono da vedersi come quello che può essere definito l’esito di un impeto momentaneo.


Il concepimento, in prima istanza, avviene mediante uno schizzo (ad olio o acrilico) su carta, ed è frutto di un procedimento che l’autore stesso definisce “giocoso”. Il flusso di manipolazione continua, che lo porta a generare un consistente numero di opere in un periodo ristretto, è un processo che ingloba una serie di step ragionati e calibrati.


A partire dai bozzetti che riposano entro un formato di piccole dimensioni - che mi permetto di definire proto pennellate vista la curiosità più volte espressa dall’artista nei confronti degli stadi primordiali della rappresentazione figurativa - prende avvio il fervore artistico.


Egli ha riservato una parete del suo studio a tali opere in potenza e, come se fossero dei cuccioli da nutrire, ci convive, li osserva, li sfama.


Prima di procedere alla concretizzazione formale del lavoro, Martiny valuta una sorta di pausa di riflessione, un vero e proprio periodo di tempo che l’artista riserva ad un’intensa analisi meditativa. Questo momento di raccoglimento permette quella che è da vedersi come una maturazione consapevole del pensiero originale. Se, a distanza di tempo, è ancora catturato dallo spirito e dal sentimento che ha scaturito la fecondazione dell’embrione, valuta la possibilità di ampliarne la gestazione, portandolo su scala più ampia.


In questa terza fase del lavoro Martiny dipinge su dei fogli di plastica adagiati sul pavimento, quasi come volesse riuscire ad assorbire l’energia pura e ancestrale che la terra è in grado di regalare a quei colori, pastosi e trepidanti, ottenuti mediante l’ausilio di particolari polimeri. La letteratura critica paragona tale processo realizzativo all’Espressionismo Astratto di Pollock anche se il modus operandi di Martiny prevede l’utilizzo di pennelli molto grandi, caratterizzati da un manico corto che permette l’instaurarsi di un legame prossimo con i materiali, diretto e coinvolgente. Spesso, nell’effervescenza del processo creativo abbandona gli strumenti del mestiere intervenendo direttamente con il proprio corpo. Infatti, le sue mani plasmano, impastano, manipolano e sollecitano, ad libitum, i materiali che abitano e animano queste mastodontiche tracce di colore. Tale schema altro non fa che ribadire lo stile che denota la poetica dell’artista americano: il prelievo di un elemento fondante del testo figurativo che, dal supporto orizzontale quale la tela, viene trasposto in scultura.


L’ultimo anello di questa catena prevede che, una volta asciugatosi il colore, la traccia pittorica ottenuta venga ritagliata per poi essere posta su di un supporto in alluminio che ne isoli la silhouette.


Il dato saliente è, senza dubbio, il connubio che si viene a creare tra due elementi apparentemente ossimorici quali scultura e pittura. In seno a quanto appena affermato, di fatto, queste opere costituiscono un ulteriore mattoncino rispetto alle istanze che hanno dato vita al Minimalismo negli anni Sessanta.


Se da una parte, in quel periodo, s’imponeva violentemente l’“edonismo pop” - secondo la definizione di Gillo Dorfles - dall’altra iniziava ad espandersi, in maniera molto discreta, il desiderio di “ridurre al minimo” i prodotti estetici eliminando, ad esempio, il decorativismo, la complicazione formale e la piacevolezza. Le opere etichettate al di sotto di questa corrente sono perlopiù date da forme semplicissime, geometriche o squadrate, realizzate mediante materiali altrettanto umili.


Nel 1966 Robert Morris, artista di punta della Minimal Art, in Notes on Sculpture, analizza non solo l’entità fisica di cui godono gli oggetti ma anche l’aspetto conoscitivo dell’osservatore sulla base della gestalt. Nella prima parte di questo saggio Morris sviscera il rapporto tra scultura e pittura e lo fa soffermandosi su di una distinzione fondamentale, ossia sulla natura fortemente tattile della scultura e le sensibilità ottiche che, invece, appartengono alla sfera pittorica. Morris, in definitiva, arriva a difendere la concezione tattile e tridimensionale della scultura fino a giungere a una conclusione fondamentale - che può essere traslata anche alla poetica di Martiny - ovvero il coinvolgimento dello spettatore. È infatti impossibile escludere dai dispositivi in questione l’aspetto percettivo dell’opera che, con discrezione, invade lo spazio vitale dell’osservatore il quale, incantato dalle creste morbidamente severe di queste pennellate, inizia a interrogarsi sulla loro esistenza.


Questo breve parallelismo tra Martiny e il Minimalismo, di fatto, appare utile per analizzare la poetica di un artista americano che, nonostante negli ultimi anni stia iniziando a fare il suo ingresso nel panorama artistico europeo, suscita in noi ancora molti affascinanti interrogativi dettati dalla posizione liminare, tra immagine e oggetto, in cui giacciono le sue pennellate.


Penso ad opere come Faliscan, ad esempio, del 2018. Contemplando la matericità vivace e violenta di quest’opera è inevitabile constatarne la portata oggettuale ma, di fatto, a differenza dei prodotti minimal, le opere martiniane sono vibranti; i colori, i materiali e le vette che infrangono la superficie suscitano, inevitabilmente, una lettura ulteriore, un passo in avanti che ci conduce a un approccio evocativo nei confronti della sfera personale dell’artista. Lui stesso afferma come, del resto, la scelta stessa dei colori non sia connessa a uno studio scientifico-teorico ma, bensì, venga condotta dal desiderio di sperimentare la pittura “come spinta e movimento” e, non a caso, si tratta di un uso del colore guidato da una ricerca di matrice spirituale.


Egli adotta una poetica che, fondamentalmente, partendo dalle istanze espresse da correnti quali l’Espressionismo Astratto, gli permette di fare in modo che queste pennellate arrivino a determinare la forma scultorea dell’opera. Martiny si descrive come un astrattista gestuale e questa continua sperimentazione, che lo vede agire sia sulla tecnica che sui materiali dei quali studia con estrema minuzia le proprietà chimiche, ha fatto sì che, nel corso degli anni, egli approdasse ad una nuova definizione di quel che è noto a tutti come “dipinto”. Martiny ha, difatti, avvertito la necessità di fare un passo in avanti rispetto alla tradizionale forma rettangolare dell’opera, approdando all’irregolarità e alla corposità di queste brushstrokes che, fondamentalmente, mirano a instaurare un nuovo paradigma che punta ad un legame più intimo tra opera e fruitore. Questo sentimento lo ha spinto, di conseguenza, a studiare sistemi di pittura e supporto in grado di agevolare questo tipo di operazione.


L’artista americano, in una recente intervista a cura di Noah Becker, ha affermato: “Voglio creare un’esperienza intima e coinvolgente tra lo spettatore e l’opera d’arte – e ha aggiunto – Lavoro duramente affinché fuoriesca un prodotto in grado di instaurare un dialogo con la storia della pittura senza, tuttavia, che questi possa esserne suggestionato”.


Il semplice fatto di voler sfiorare con i polpastrelli la pastosità di queste pennellate è sintomatico del desiderio che sorge in noi di valicare il confine della forma, per arrivare a creare una connessione tattile con l’oggetto che fluttua di fronte al nostro sguardo.


Osservando questo tipo di operazioni, balzano alla mente i prodotti della Pop Art. Mi riferisco, nello specifico, a Roy Liechtenstein e alle sue “Brushtrokes Painting” che, stravolgendo un modus operandi appartenente all’Espressionismo Astratto, hanno freddato l’emergere di un tratto peculiare della personalità dell’artista prediligendo, al contrario, l’ironia pop.


Le opere di Martiny non sono ironiche, non sono minimalmente impersonali ma, anzi, sono da vedersi come un’evoluzione naturale, un passo in avanti rispetto all’ Espressionismo Astratto e al Minimalismo e agli antipodi rispetto allo scherno pop. Portando queste pennellate a dimensioni massicce e facendole entrare in dialogo con la nostra corporeità, infatti, l’artista ha proposto un’operazione di tipo inclusivo; egli, infatti, è riuscito con estrema semplicità a trasporre le capacità espressive del corpo della pittura, alle quali noi siamo in grado di dare un senso poiché, queste, assumendo determinate posture, risuonano nel nostro essere sentimentale.


La poetica che sta alla base delle operazioni martiniane lo rende un vero e proprio innovatore che, tuttavia, non rinuncia alla brama di voler rivolgere uno sguardo al passato; egli è affascinato da quella pittura, fatta di campi di colore molto estesi e accesi, che anima le opere di Giorgione e Tiziano. “Sono ammaliato dall’approccio pittorico sviluppato da Giorgione e Tiziano (…) Hanno aperto la strada a un modo lirico di vedere le cose che, all’interno della Scuola Veneziana, non aveva precedenti”.


Appare chiaro, quindi, il fascino che il colore, nel corso degli anni, ha esercitato sull’artista americano tant’è che, in queste pennellate scultoree, la vernice pian piano si fa corpo, fino ad assumere un ruolo fondamentale, indipendente, che elude qualsiasi riferimento politico, simbolico o scientifico.


Grazie alla natura del materiale prediletto dall’artista, egli può lavorare su dimensioni molto più ampie di quanto possa permettergli un qualsiasi altro tipo di supporto. Una volta installati, questi possenti arabeschi colorati, animano lo spazio dove sono collocati. Ne è un caso esemplificativo Unami: l’opera, risalente al 2015, collocata all’interno dell’One World Trade Center di New York. Il blu, il bianco e il verde, che compongono l’impresa, vivificano, di fatto, il luogo che la ospita e instaurano, inevitabilmente, un legame empatico con il pubblico che può godere della matericità, dell’eleganza e della vivacità del prodotto. Il lavoro avrebbe faticato a passare attraverso le porte e, di conseguenza, l’artista ha utilizzato la hall della location come suo “studio” personale per i due mesi di gestazione dell’opera. In definitiva, queste magnifiche operazioni rimangono nello spazio uterino che ne ha visto il concepimento e così, inevitabilmente, tra locus e opera viene a forgiarsi un’unione.


I pezzi dell’artista sono audaci, forti, vibranti, non solo per una questione prettamente fisica ma, molto semplicemente, perché Martiny si concentra su colori ben definiti, senza andare a creare un mix che, data la corpulenza e la densità dei materiali, potrebbe produrre un senso di confusione una volta impresso nell’ occhio dello spettatore. Queste opere hanno un impatto visivo energico ma, allo stesso tempo, offrono qualcosa di essenzialmente puro alla vista. La pittura, infatti, affettuosamente essenziale, priva di cavilli, è composta da un singolo medium, da pochi colori e da un unico gesto che, tuttavia, offre la possibilità di stabilire un legame non solo tra opera e spettatore ma, per proprietà transitiva, anche tra spettatore e luogo in cui quest’ultima è installata.


Se l’obiettivo di molti artisti, dagli anni Sessanta in poi, è stato di colmare quel gap che nei decenni si era interposto tra vita e arte, Martiny fa un salto in avanti. Egli, infatti, agisce su di un altro fronte; quello che opera nello spazio metafisico tra pittura e scultura che, ironia della sorte, è lo stesso luogo in cui l’artista ci conduce ad essere i protagonisti indiscussi dell’opera da lui concepita.




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