L'ESPRESSIONE DEL SEGNO
Agostino Ferrari

09 aprile 2022 - 29 maggio 2022
Viaggio 17

È cosa ardua dare una definizione esaustiva al concetto di segno, eppure è quell’ atto che dona materia all’astrazione e che, concretamente, effigia la traccia più immediata della nostra presenza nel mondo. Volendo essere scrupolosi, da un punto di vista prettamente etimologico, circoscrive un'impronta arcaica che denota un procedimento visuale del pensiero e, più in generale, in arte tende a indicare tutto ciò che accompagna il gesto. Ma se la logica non inganna, il segno non è qualcosa di univocamente riconosciuto e spesso il focalizzarsi di fronte ad esso, senza andare oltre, può ingannare anche il più attento lettore.

La Milano degli anni Sessanta, quella del boom economico, eludendo qualsiasi forma di discrezione, aveva come motore un’effervescenza tale da accogliere stimoli e novità provenienti da tutte le parti del mondo, tanto da distinguersi come terreno fertile per quelle ricerche che, mosse da un forte senso di auto interrogazione, cercavano di definire il ruolo dell’arte contemporanea all’interno della società. In un mondo non troppo lontano, dove le azioni della vita non erano deputate ai computer e le conversazioni vis a vis non facevano paura, a fungere da social network erano i locali; a Brera uno tra i più gettonati era il Bar Giamaica. Qui, gli intellettuali, in mezzo a nuvole di fumo, vestiti a trapezio e stoffe sintetiche, amavano rifugiarsi per discutere le tematiche più salienti del panorama artistico coevo. Con la fine degli anni Cinquanta, le possibilità offerte dall’informale stavano, pian piano, esaurendosi e ciò sottendeva il profilarsi di una sorta di crisi per il mondo delle arti visive. Inizia ad affermarsi una nuova generazione di artisti che, animata dal bagliore di Lucio Fontana, comincia a sentire la necessità di creare nuove possibilità di comunicazione, lontane da quell’accademismo cui era inciampato, forse senza volerlo, l’informale. Era tangibile, come sottolinea Luciano Caramel, la necessità di scavalcare il peculiare soggettivismo e l’espressività automatica di quest’ultimo, per aprire le porte alla riconquista di una concreta oggettualità.

Il secondo dopoguerra incarna un periodo poliedrico e complesso poiché tutti gli statuti dell’arte vengono messi in discussione e Milano è il polmone entro cui questa contestazione si anima. Un gruppo, guidato da Manzoni e Castellani, afferma che la tradizione pittorica è giunta al capolinea e che è necessario andare oltre. Questi fonderanno poi una rivista, Azimuth 2 e qui, molti articoli, parleranno di una “nuova pittura” in grado di “oggettivare gli strumenti dell’azione, tanto che la costellazione e la vera natura della stessa materia formatrice diventano punto di partenza e modulo di effetto, e la struttura oggettiva e reale si mette al posto della vaga traccia di forme personalistiche di espressione”. Insomma, quella “nuova pittura” caldeggiata e teorizzata da Udo Kultermann faceva leva su significati e significanti che andavano al di là del concetto stesso di pittura, anche quando il terreno d’azione era ancora lo stesso, provocando così effervescenti discussioni.

A Milano c’erano le azioni provocatorie e concettuali di Piero Manzoni, le estroflessioni ritmiche di Enrico Castellani, c’era il Gruppo T che inaugurava la stagione dell’Arte Programmata e poi c’era un altro gruppo, forse meno noto, ma che è stato fondamentale poiché, mosso dal desiderio di salvaguardare l’azione pittorica, ha portato avanti la ricerca sul segno avviata da Fontana. Il Gruppo del Cenobio nasce nel 1962 dalla sinergia venutasi a creare fra Agostino Ferrari, Angelo Verga, Ettore Sordini, Artuto Vermi e Ugo La Pietra. In linea con la poetica dei gruppi che nascono parallelamente, questi giovani artisti apparivano refrattari al mercato proprio perché non volevano manifestare alcuna forma di servilismo nei confronti di un sistema in cui non sentivano di appartenere. Probabilmente, con il senno di poi, questa presa di posizione - associata al rapido disfacimento del gruppo - li ha condannati ad una legittimazione talmente scarsa da parte della critica che ancora oggi le ricerche portate avanti dal gruppo non godono del dovuto riconoscimento. Il Gruppo, infatti, parallelamente agli oggettuali e ai cinetici, aveva ereditato da Lucio Fontana la parte segnica. Certo, definirli discepoli dell’artista italoargentino sarebbe un errore grossolano poiché, sebbene accolgano e proseguano la ricerca sul segno avviata da quest’ultimo, essi all’apertura dell’arte verso lo spazio prediligono quella via ancora fortemente vincolata all’oggetto-quadro, che successivamente, sarebbe stata definita semantica, dove la tela diventa un universo empirico in cui scrutare le possibilità offerte dal segno. La gestualità di Fontana forte di quell’indagine sul segno, sviluppata poi mediante i buchi e i tagli, nasceva con lo scopo di svincolare l’arte dalla cattività del quadro. Il taglio non è più inteso come un semplice elemento grafico ma genera una frattura in grado di palesare, scavalcando la finzione, il vero quid dell’arte che non è ciò che abbiamo di fronte, ma quel che sta oltre. Siamo dinnanzi ad un’arte che si apre allo spazio e che, affacciandosi al futuro, troverà massimo riverbero negli Ambienti Spaziali. Se da una parte, quindi, Fontana vorrebbe superare (uso il condizionale perché i Concetti Spaziali per quanto vogliano farsi portavoce di un’idea innovativa rimangono vincolati alla parete ) il concetto oramai vetusto di quadro, utilizzando il segno come chiave per aprire alla tridimensionalità; dall’altra, gli artisti del collettivo si avvalgono, forse nostalgicamente, delle soluzioni che il segno può offrire, tanto da adottarlo come mezzo in grado di generare, tramite morbidi grafismi, universi al di qua della tela, senza necessariamente ricorrere alle lacerazioni fontaniane.

Di fronte alla crisi dell’informale gli artisti agiscono e reagiscono. Manzoni e Castellani lo fanno negando, mentre la combriccola del Cenobio vuole ricomporre la frattura insita nella pittura senza, tuttavia, procedere all’annullamento. Caramel sottolinea come l’operato di questo collettivo assomigli al contemporaneo Gruppo Uno. Questi ebbero grande fortuna poiché a Roma c’era Giulio Carlo Argan che prendendoli a cuore, ha restituito loro degno riconoscimento critico.

Quelli del Cenobio si piazzano quindi entro questo articolato panorama di tendenze che rispondono all’informale e lo fanno con coraggiosa e cosciente autonomia, proponendo lavori che abbracciavano ancora la pittura. Ma non quella “pittura nuova” di cui ho fatto menzione poco sopra e che, di fatto e senza ironie, la pittura la rifiutava, ma una pittura che discute i propri statuti dall’interno con il desiderio di custodire quel legame tra arte e vita, tra artista ed opera che l’informale aveva inaugurato nella sua immersione nella materia e nella segnicità e gestualità.

Nonostante i rapporti con Azimuth, il Cenobio non rinuncia al genere pittorico, forse lo rabbonisce tanto che, come riporta sempre Caramel, la fisicità dei pigmenti, il segno primario e il ricorso alla scrittura, autorizzano a ipotizzare confronti con suggestioni tratte dal lavoro coevo di maestri dell’informale europeo quali Fautrier, Hartung, Tapies, Burri, senza contare quello determinante di Fontana.

Il Cenobio ha cercato di ripensare romanticamente la pittura, facendola sopravvivere mediante elementi segnici minimali, cercando di difenderla dalle posizioni critiche di Piero Manzoni e dal crescente trasporto del pubblico nei confronti di un’arte concepita perlopiù come evento o installazione. Filo rosso che unisce le menti del gruppo è quindi una sorta di dichiarazione di poetica, di un programma ben calibrato dove la tecnica pittorica, sempre più discreta e impercettibile, stringe la mano alla scrittura e la composizione ricorda le pagine scritte dei vecchi diari. Il lavoro di questi artisti si avvale di quelle esperienze pregresse di coloro che avevano perlustrato le possibilità offerte dal segno, mi riferisco a nomi come Capogrossi, Klee, Rothko, Perilli e Accardi.

Il Cenobio appariva indubbiamente ben collocato all’interno di quei movimenti nati per confutare l’azione informale ma ciò che, di fatto, lo rendeva unico era il legame quasi sanguigno che lo vedeva devoto ad una pittura priva di abbondanze e meccanicismi.

Una volta giunti allo scioglimento, dopo solo un anno e mezzo, i componenti proseguirono individualmente la ricerca sul segno e questo fattore è senza dubbio indicativo di quel senso di appartenenza che questi giovani nutrivano nei confronti della poetica che li aveva visti fondersi. Agostino Ferrari proseguirà verso quella che egli stesso definì “oggettualizzazione del segno” cui massimo apice è incarnato da Il Teatro del segno dove il tratto veniva catturato in un vero e proprio fatto fisico. Ma questo processo rivolto all’oggettualizzazione non fu immediato, tant’è che venne preannunciato da una serie di sperimentazioni che, valicando materie e materiali differenti, ci danno l’idea della scrupolosa coerenza che ha attraversato la linea evolutiva relativa all’operato dell’artista milanese. Poiché, nonostante la riverenza nei confronti di una dottrina che mirava al rifiuto dell’annullamento pittorico portato avanti dai suoi contemporanei, egli modula la materia e la pone al servizio del segno. Basti pensare ai Racconti (1963) dove il segno, ancora fedele alla superficie pittorica, pur non recando espressioni significanti, viene trattato in maniera prettamente scritturale tanto da ricordare la densità delle pagine scritte; un escamotage meta-artistico atto al favorire una risposta spontanea ed emozionale da parte dell’osservatore. Se si vuole individuare uno spartiacque nell’operato di Ferrari è doveroso far menzione di quel periodo americano che, a cavallo tra 1964 e 1965, ha senza dubbio ampliato gli orizzonti del giovane artista che, attratto dall’effervescenza travolgente e avveniristica della Pop Art, lo ha visto a New York per sei mesi in ben due stagioni successive. Qui ebbe l’opportunità di avvicinare artisti come Lichtenstein, Jasper Johns, Rauschenberg e Billy Apple. Nonostante il modus operandi statunitense apparisse lontano dal suo orizzonte di ricerca, il modo di approcciare il segno e quindi anche la materia, in seguito a quest’esperienza, iniziò a mutare. Quest’ultimo abbandona – mi si passi il termine – la scrittura e apre le braccia ad una fisicità sempre più concreta e plastica sfociando, tra 1966 e 1967, nel Teatro del Segno. Qui la superficie bidimensionale della tela viene messa a repentaglio; il segno si trasforma, avvicinando, sempre più, prerogative oggettive. In questo frangente inizia a farsi strada l’utilizzo di materiali sempre più innovativi, finalizzati al desiderio di elaborare un proprio alfabeto personale. Spiccano, infatti, quattro modalità mediante le quali si articola e si concretizza fisicamente il segno a cui corrisponde un diverso grado di percezione. Il segno simbolo, costruito su di un supporto trasparente; il segno pittorico concretizzato su di una tela opaca; il segno fisico positivo, realizzato in metallo e altri materiali posti sul rilievo della superficie e il segno fisico negativo incarnato da una fessura incisa su di un supporto ligneo. Nel 1981 si approda a lavori che egli stesso definisce di “disimpegno” note come Giardini. Si tratta di vivacissime tele che, abbandonando la sfera concettuale, meritano una menzione speciale dal momento che esplorano il tema della memoria. Qui segno, forma e colore trovavano il loro massimo riverbero nell’unione non premeditata di tanti colori acrilici indirizzati all’espressione degli stati d’animo. La svolta fondamentale, o di rifondazione (come la definisce lui), nella poetica dell’artista del Cenobio si ebbe con gli Eventi (1984). Qui il segno si fa senziente, dopo una lunga e scandagliata gestazione, delle sue potenzialità, approdando ad operazioni di grandi dimensioni. Come sottolinea egli stesso: “Non c’era più dualismo tra il fare e l’essere. (…) Prima pensavo all’opera come qualcosa di distaccato, diverso da me, il mio atteggiamento era quello di operare sulla tela; dopo è stata la tela stessa che mi ha suggerito cosa fare. Lì ho trovato un punto di equilibrio e, in un certo senso, un traguardo, un punto di arrivo”.

Da operazioni come I Racconti si naviga verso lavori come Segno-Impronta (1996) all’interno dei quali il segno, facendosi solco, attraversa la superficie e invita lo sguardo a percorrerne il viaggio sulla tela che diventa un deserto nero di possibilità. Qui, infatti, l’artista adotta come mezzo espressivo la sabbia nera, dalla quale rimane affascinato durante una passeggiata al mare sul bagnasciuga tant’è che, apprezzandone la palpitante consistenza e il colore che ricorda la densità dell’inchiostro, la impiega per realizzare questo tipo di lavori. Per non parlare poi di opera quali 4D concretizzate mediante lamiere. Ecco credo che a rendere abitante del proprio tempo l’artista sia proprio quest’utilizzo dei materiali che, al servizio della forma mentis pittorica, spingono i suoi lavori a risultati dal sapore innovativo e moderno.

Ciò che ha contraddistinto la sua indagine è l’atteggiamento scientifico che lo ha spinto nell’elaborazione di un alfabeto personale fatto di segni, forme e colori che culminerà in una sorta di compenetrazione tra segno e artista. Come se il segno, mediante la concretezza raggiunta, utilizzasse il pittore come medium tramite il quale esprimere sé stesso e, al contempo, l’artista ritrovasse la sua identità mediante l’azione segnica esercitata sulla tela. In operazioni come, si veda catalogo pagina 29, il segno sembra prendere vita, invadendo lo spazio offerto dalla tela che, con manifesta naturalezza, pare riempirsi, con squisita intimità, come fosse la pagina di un diario. Si approda ad una sorta di horror vacui che, mediante il disfacimento del fondo, genera uno spazio infinito di possibilità. Ma la chiusura del cerchio arriva con la serie; Oltre la soglia. Qui, Ferrari, dopo un peregrinare di sperimentazioni, si ricongiunge all’origine fontaniana, squarciando il fondo. Quel che si palesa è uno spazio ignoto, una sorta di buco nero capace di mostrare allo spettatore il luogo sacro entro cui avviene la gestazione del segno. Lo statuto dell’immagine non viene compromesso ma, anzi, facendosi più elementare risulta più immediato. Il segno, qui, come rimarca Caramel, non è né indice, né icona e, di fatto, schiva una lettura semiotica vera e propria, sia essa semantica, sintattica o pragmatica. Credo che questo tipo di operazione risponda a tutti gli interrogativi che sorgono quando ci troviamo di fronte alle operazioni non solo di Ferrari ma di tutti i componenti del Cenobio. Se lo spazio individuato da Fontana mediante il taglio della tela è un vuoto che apre ad una concezione ambientale dell’arte, per Ferrari quello spazio che si palesa è un pieno che, generando il segno, apre a tutte quelle potenzialità che stanno al di qua della tela. Non a caso, tutto il mondo tangibile può essere sottoposto ad un’estrema semplificazione segnica e disciplinato secondo simboli elementari. Diventando scrittura la semplificazione genera, oltre alle situazioni ambientali, anche gli stati emozionali che animano quel mondo che sta “al di qua” della superficie pittorica e che, ironia della sorte, accoglie la nostra presenza nel cosmo.


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