Nunzio e la Scuola Romana di San Lorenzo.
NUNZIO DI STEFANO

Testo critico: Virginia Baradel

06 ottobre 2018 - 06 dicembre 2018
Viaggio 11

Nunzio e la Scuola romana di San Lorenzo


La mia scultura cerca di eliminare tutto quello che è superfluo”

Nunzio



Interpretare il lavoro di uno scultore così essenziale e rigoroso come Nunzio Di Stefano non è cosa semplice, ma ci soccorre quella linea della scultura del Novecento che ha rinunciato alla rappresentazione. Sono passati oltre settant’anni da quando Arturo Martini dettò in modo lapidario i sui comandamenti sulla scultura. Il primo è: “Fa che io serva solo a me stessa”. Se c’è una certezza che l’arte contemporanea possiede in via definitiva è che la scultura non finge, non illude, non simula. Semplicemente è, esiste in una trama di riflessioni, percezioni e caratteri all’interno di uno spazio attivo che incide sulla forma stessa dell’opera. Si tratta di un manufatto che si misura con la luce e che, nella contemplazione, si carica di rimandi. Nella scultura la forma significante molto deve alla materia e alla tecnica. La storia della sua nascita fornirà mezzi sufficienti per avvicinarsi ma non ne esaurirà il fascino.

E’ il caso della scultura di Nunzio, artista assorto ed esigente, fedele a una ricerca che lo pone entro un orizzonte di valori primari dove non c’è posto per la variazione, per la cifra: ogni opera è un passaggio, uno scalo che sposta più in là l’approdo.


La storia lo colloca in un contesto collettivo che i critici hanno definito Nuova Scuola Romana. Siamo negli anni Ottanta, alle spalle l’Arte concettuale in tutte le sue manifestazioni. In Italia l’Arte povera aveva disegnato il perimetro della nuova estetica antiespressiva, basilare. Tuttavia il presente stava producendo il più vistoso fenomeno artistico di reazione: la Transavanguardia con il corredo di espressionismo gestuale e citazioni delle avanguardie storiche. Meno vistoso era l’Anacronismo, neoclassico in senso postmoderno e filo pop.

A Roma un gruppo di artisti insediò i propri studi in un edifico industriale abbandonato, il pastificio Cerere nel quartiere popolare di San Lorenzo. Dapprima furono Nunzio e Giuseppe Gallo, poi Domenico Bianchi, Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Piero Pizzi Cannella e Marco Tirelli.

Non si trattava di un gruppo con propositi e programmi comuni, ma di un insieme di individualità che andavano emergendo in quegli anni. Alcuni di loro (Nunzio, Tirelli, Dessì e Ceccobelli) erano ex allievi di Toti Scialoja all’Accademia. Attraverso di lui avevano ben conosciuto l’Espressionismo astratto americano. Per gli artisti della Scuola di New York, che Scialoja aveva frequentato, un segno vergato con mirata energia pittorica aveva tutto ciò che serviva per farsi opera.

Ciò che accomunava il gruppo di San Lorenzo era la concezione dell’arte come un’impresa che andava alle radici della forma, aveva a che fare con il passato inteso come memoria e giacimento, luogo privilegiato dove il soggetto può incontrare i fondamenti, il crogiolo generativo dell’arte. Ma anche il quotidiano entrava in scena, evocato in una dimensione ancestrale, mitica. Quegli artisti erano in viaggio dentro se stessi e dentro l’arte, muniti di un’idea di lavoro che andava verso le origini, verso un luogo di terra e di ombre, simile alla primigenia caverna.

Il passato non è dietro di noi, ma sotto i nostri piedi” (Jole De Sanna).

La prevalenza dei colori terrosi e del nero nelle loro opere era in qualche modo segnale di questo orientamento.

Ognuno aveva un taccuino diverso e un proprio vademecum di ricerca ma per tutti si trattava di ristabilire un legame profondo con la tradizione, con la manualità, con la dimensione auratica che l’arte analitica per un verso e il neoespressionismo per un altro avevano perso. Tempi lunghi di sedimentazione e affioramento, materie e tecniche cercate con assillo e concentrazione, evocazioni iconiche che si materializzano e danno forma allo spazio, gamme cromatiche e repertori di segni scabri, fondi e germinali furono i tratti distintivi iniziali.

Poi ognuno prese la sua strada.

Coloro che, pur mutando cifre e angolature linguistiche, sono rimasti più fedeli agli assunti iniziali sono Giuseppe Gallo, Bruno Ceccobelli e Piero Pizzi Cannella. Forti di una personalità artistica plastica e originale, essi percorrono strade di evocazioni simboliche che emergono entro fitte trame, ora più informali, ora più strutturate, screziate di penombra, appena fuori dalla pervasività generativa del nero.

Gallo controlla un’energia espressiva spontanea per comporre scenari da cui affiorano icone mitologiche, come se il quotidiano, ruvido e dimesso, rinvenisse nel fondo scena archetipi e figure arcane e si misurasse con la loro sacralità. Senza titolo del 1987 è un’opera esemplare della sua ricerca, carica di suggestioni narrative e simboliche che il supporto ligneo rende affini alla tradizione religiosa. Il tratto veemente, informale dove il nero incontra l’oro, aumenta l’impatto emotivo di questi affioramenti.

Anche i lavori esposti in questa mostra di Bruno Ceccobelli risalgono agli anni dell’affermazione del gruppo e sono pur essi su tavola. Egli appare il più irruente, il più espressionista, il più vicino alle poetiche della Transavanguardia. Trae le figure del suo linguaggio da un bacino di sedimenti ancestrali dove giacciono feticci delle vite e delle ere. I Santi numeri sono una specie di tavola della legge composta di una materia segnica violenta: il tratto nero sgorbiato s’irradia lateralmente da un centro quadrettato che frana. Stella cometa è una pittura tridimensionale dai colori accesi, inconsueta nel repertorio di Ceccobelli dove domina la “nerità”. E’ un gioco vitale, persino ludico, dove frangono e si ricompongono, con sicura energia simbolica, emozioni metafisiche intrappolate in una specie di costruttivismo primitivo.

Pizzi Cannella evoca forme elementari di una privata archeologia come vasi-urne che diventano motivo di ritmo e composizione, una specie di spartito della memoria, appena sussurrato, fermato sulla soglia dove transitano le ombre, sul limite del visibile in bilico tra una remota emozione e una nuova apparizione. Di quel luogo conserva traccia il viluppo informale dei larghi segni ocra in Ombra cinese: i vasi neri di misure diverse sono diventati scrittura, evocazione, cifra che scandisce la verticalità e la profondità.

Per Marco Tirelli il discorso è ancora diverso. In lui è più marcata la relazione con la dimensione spaziale condotta a una pittura sommessa, astratta. Entra in gioco l’impostazione geometrica che pulsa entro superfici di soffuso chiarore precisato nel brusio omogeneo ma vibratile della texture. Elementi piani che ricevono solidità da minime aure o profili di luce, variazioni cromatiche monocrome che, in una specie di minimalismo lirico, creano profondità. Forme lineari sospese, regolari e astratte, si accampano nel vuoto tramutandosi in elementi di metrica di uno spazio che affiora dal nero. Tirelli sembra trarre ispirazione dall’ordine spaziale e compositivo dell’architettura metafisica dove rapporti e intervalli valgono più delle forme riconoscibili. E’ una pittura incentrata sul rapporto tra la luce e l’ombra, sulle infinite variazioni di confine tra le due dimensioni.

Gianni Dessì è forse quello che più si è distanziato dalle poetiche di ricerca del gruppo. Egli è arrivato così lontano dalle premesse di quegli anni da concepire superfici di colori assoluti, il giallo soprattutto, da cui promana una visionarietà astratta in grado di alterare la percezione dello spazio. Per questa via approda alle camere pictae, dove il giallo diventa un mezzo per oltrepassare la soglia della coscienza. I suoi dipinti hanno l’ardire di trascinare in altre dimensioni percettive, hanno a che fare con una specie di illuminazione sensoriale. In essi si dispiegano le evoluzioni di una geometria libera e aerea: viluppi di curve, spirali, elissi, ma anche ovuli e croci, grumi ed espansioni di colore. Senza titolo del 1995 è costruito per pennellate larghe e poggiate a vista in dinamica curvilinea. Il loro andamento concentrico è tuttavia invertito e sembra contrastare e comprimere l’espansione della forma centrale ad ovulo intersecata da una croce: giallo e bianco accentuano la purezza simbolica e sorgiva di questo bozzolo di andamenti ricurvi e ne aumentano l’incidenza percettiva. Si creano alterazioni di gradi di profondità e di luce concreta. Al centro del quadro si trova a galleggiare nel vuoto una forma germinale, una specie di cellula, simulacro prezioso di uno spazio simbolico che sembra possedere una natura linguistica aliena rispetto alla fisicità delle pennellate dipinte. Luogo mistico di una matrice.

Ad altra latitudine rispetto alla soggettività e dalla memoria si trova anche Domenico Bianchi che ha sviluppato una linea di negazione della gestualità pittorica attraverso una meditata ricerca di elementi compositivi labili e immutabili allo stesso tempo. Laura Cherubini parlò di “forma della leggerezza”. L’acquerello prima e la cera dopo gli consentirono di sperimentare la materializzazione rarefatta della luce, la solidità minima ma inalterabile della trasparenza. Della cera che dilaga fluida, scivola e si rapprende mantenendo la sottile e compatta presa sulla superfice, Bianchi utilizzò anche le lastrine che le api usano per deporre il miele. Un formato quadrato, standard. Una forma geometrica che permane nel tempo e gli consente di elaborare composizioni astratte, mantenendo molteplicità e volatilità condotte e unità. Il modulo quadrangolare, pur di diversa misura, si conserva in questo lavoro del 2003 che orchestra il battito della superficie intorno a un centro dove pulsa un grumo vagamente geometrico composto di tratti luminosi, una specie di ideogramma dell’universo. Si tratta di un motivo ricorrente nel lavoro di Bianchi: evoluzione segnica e germinale della forma sferica che nacque molti anni orsono dalla trasformazione digitale della superficie bidimensionale connaturata ai colori imprimenti, chiari e liquidi. Negli anni quella dinamica concentrica di viluppi astratti è diventata una specie di nucleo generativo. Esso costituisce il baricentro delle superfici composte da essenziali forme geometriche che la colorazione rende immateriali, in grado di esibire una neutralità espressiva che tende alla pura contemplazione, senza mai passare per l’emotività soggettiva.


Nunzio è l’unico scultore del gruppo. Scultura non vuol dire semplicemente tridimensionalità, ma forma che in un certo punto e in un certo modo si sostituisce allo spazio, ne occupa materialmente una porzione trasformandone l’esistenza. L’opera è prima di tutto la materia che la sostanzia: cercata, lavorata, trattata sino a diventare simulacro del suo stesso processo. Questo indirizzo di ricerca aumenta il potere significante della scelta del materiale e della tecnica, che così elimina ogni rimando a qualcosa di esterno a sé, a qualsivoglia allusione. In origine Nunzio utilizzava il gesso e fu con grandi opere di quella materia che esordì all’Attico di Fabio Sargentini presentato da Giuliano Briganti nell’84. Ma dopo la mostra da Annina Nosei a New York dell’anno seguente decise di chiudere con il gesso perché finiva col diventare troppo controllabile, docile alle intenzioni, non aveva più in sé motivo di sorpresa. Per un anno sperimentò in assoluto silenzio, anche con momenti di crisi. Ma nell’87 presentò nuovi lavori in una mostra sempre all’Attico con Nagasawa, Pascali e Leoncillo. L’opera s’intitolava Oceano e fu in quell’occasione che entrarono in scena, con un’energia poetica carica di promesse, il legno e il piombo. Mostra importante quella all’Attico, voluta da Sargentini e presentata da Calvesi, di 4 scultori diversi, ma egualmente decisivi per il destino della scultura nei decenni centrali del Novecento. Comune tra loro anche la condivisione di una dimensione di riflessività, di ricerca totalizzante intimamente anticonformista lontana dalla mondanità, dalle passerelle del sistema dell’arte.

Dunque legno e piombo. Dapprima materie ancora ingerenti, da indagare, da domare, da cui farsi ispirare, poi sempre più forme uniche e assolute.

Il legno allo stadio finale di combustione, prossimo alla condizione fossile del carbone, fu la chiave di volta che sostituì il legno naturale trovato come relitto alla fine della sua esistenza naturale; il piombo fu l’altra materia che ad esso si contrappone nella stretta di un unicum che diventa una specie di diapason per gli accordi tra la forma e lo spazio. Un terzo elemento, il colore, avrà una sua parte nella tangibile nigredo del legno combusto, una parte che non intende essere di tipo estetico bensì sottolineare e semmai accendere l’essenzialità della forma.

Un carattere primario della scultura di Nunzio è il suo tendere alla bidimensionalità che rafforza l’idea del limen, della soglia, del diaframma che mentre separa offre possibilità di transito, di relazione. Le aperture infatti sono importanti quanto gli elementi solidi: attraverso quei varchi passa la luce, comunicano le dimensioni, acquista forma e carattere lo spazio. Nel passaggio avviene uno spostamento di prospettiva, di visione tra una condizione ed un’altra. Per questo ogni piega, ogni accostamento, ogni scarto di andamento che il legno combusto assume, acquista un valore primario che non è solo compositivo ma cognitivo. Non si tratta infatti, di una questione di forma plastica materico-minimalista ma piuttosto un’esperienza del limite. Un confine che non chiude ma illumina su possibili transiti attraverso un disegno di aperture che trasforma quella scultura in concreta metafora del grande tema dell’accesso. Nell’esperienza del varcare una soglia entrano in gioco, infatti, una sensorialità complessa non limitata alla sola percezione, la coscienza dell’allontanamento e dell’ignoto e un insieme di intuizioni e di suggestioni che danno voce a quel tanto di misterioso, di inspiegabile che la vera arte possiede, motivo per cui, pur dopo averci ragionato, essa avvince senza trovare una spiegazione, anzi evitandola.

Le sculture presenti in questa mostra offrono una selezione di esemplari realizzati dalla fine degli anni Ottanta, il decennio che ha visto la consacrazione internazionale di Nunzio, sino all’oggi e dunque è possibile apprezzare anche l’incidenza del colore in una recente scultura che vede il pigmento blu cobalto sollevarsi a getto nell’anima concava del legno, evocando anche il rovesciamento della fiamma della combustione dal caldo al freddo nella riduzione fossile. Ma è soprattutto il piombo protagonista della più recente produzione. Materia colma di evidenza primaria, non mai iconica, il piombo assume l’aura della materializzazione della luce e si unisce al legno in una specie di coincidentia oppositorum. Entro gli orizzonti di una temporalità millenaria, idealmente geologica, si legano la pienezza intransitiva, minerale del legno combusto e la levigata fluidità di una luce liquida che scorre sulla superfice del piombo, arginata da minimi spessori liminari che evocano libere geometrie, simili a quelle che segnano i transiti nelle sculture lignee. Evocano quelle guide di fuga ora nel pieno bidimensionale della superficie perché è lo spazio stesso a farsi luce e a manifestarsi acquistando visibilità, moto e misura, nella faccia specchiante del piombo. La misura nelle sculture di Nunzio è importante quanto la materia, non per calcolo ma per pura mathesis, qual’era prima di Cartesio e di Leibniz, cioè l’arcano valore di conoscenza insito nella definizione dei rapporti tra le dimensioni e le forme dei singoli elementi condotti a unità. Tale è l’ineffabile racchiuso in ogni scultura, anche la più piccola, di Nunzio.


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