STORIA DI UN' AMICIZIA
Marina Apollonio - Hans Jorg Glattfelder - Marcello Morandini

25 marzo 2023 - 12 maggio 2023
Viaggio 18

Oltre il gruppo: storia di una ricerca condivisa


Marina mi invitò l’estate del 1964 a Venezia Lido, dove abitava con la sua famiglia, e in quell’occasione conobbi suo padre Umbro Apollonio. Tornai poi l’anno successivo con la mia prima moglie Mariarosa nel mese di febbraio, in viaggio di nozze. Ricordo che passeggiando con Marina e sua sorella sulla spiaggia deserta del Lido, persi subito nella sabbia la nuovissima fede nuziale, con grande disperazione di mia moglie! La cercammo e ricercammo ma, ancora oggi, di lei nessuna traccia! Rividi poi Marina molte volte anche con Alviani, miei ospiti a Varese, e con loro visitai la prima volta l’importante Biennale di Venezia del 1966. Ricordo, inoltre, una simpatica amichevole esposizione di quattro colleghi alla Galleria Cortina di Milano: Apollonio, Dadamaino, Morandini e Turnquist. Marina è sempre stata per me un’amica alla quale sono legato con grande affetto! E da sempre condivido con lei informazioni, esposizioni e professionalità.

Affido alle parole di Marcello Morandini il compito di iniziare a sciogliere le trame sottili, e a tratti impenetrabili, che raccontano la storia dell’amicizia che anima quest’esposizione, avente come oggetto il dialogo tra le sue opere e quelle di Hans Jorg Glattfelder e Marina Apollonio.

Paolo Crepet nel suo libro Elogio all’Amicizia scrive: “L'amicizia nasce dalle occasioni della vita, spesso dal destino, ma per diventare sentimento irrinunciabile necessita poi di grandi emozioni condivise”.

Certo perché il periodo in cui queste figure iniziano a muoversi, quello del secondo dopoguerra, è talmente fecondo dal punto di vista culturale e sociale, che è in grado di innescare un senso di nostalgia anche in chi non l’ha mai vissuto. In Italia si respira un’aria nuova, l’industria è in ascesa e, questo cambio di rotta rispetto alla cultura rurale cui si era abituati, porta con sé svolte di cui, ancora oggi, è possibile percepire l’eco. Gli artisti iniziano ad interrogarsi su quello che è il ruolo dell’arte all’interno della società; di fronte ad una realtà che non è più fissa ma in continuo divenire è fondamentale far ricorso a nuovi canoni della visione. Sono anni caratterizzati da una miriade di occasioni espositive, sia a livello nazionale che internazionale, dove gli artisti che vi prendono parte si conoscono, condividono idee e, com’è naturale che sia, fanno amicizia. Poi ognuno prosegue per la sua strada. C’è chi, nel corso della propria carriera, viaggia molto, chi si trasferisce, chi rimane, chi si lascia contaminare, chi cambia idea e chi rimane fedele a sé stesso. Proprio grazie alle occasioni espositive di quel periodo Marina, Hans e Marcello hanno intrecciato le loro esistenze dando vita ad un legame così fecondo che, al di là dell’amicizia e delle emozioni, oggi restituisce ai nostri occhi gli esiti di una ricerca basata su una grammatica visiva spesso condivisa.

Tra le tante mostre cui gli artisti hanno partecipato negli anni credo sia importante, in quest’occasione, riportare quelle che Apollonio e Morandini hanno voluto ricordare nel corso delle nostre telefonate e dei nostri scambi. Se il rapporto tra i due sembra essere assodato già alla fine degli anni Sessanta – come emerge dalla fotografia in apertura - per vedere il triangolo concretizzato sarà necessario attendere gli inizi del decennio successivo. Nonostante i tre abbiano preso parte, individualmente, sin dal 1967, all’attività espositiva del Centro Operativo Sincron di Brescia, l’anno della svolta va forse individuato nel 1971 quando i nomi di Apollonio, Glattfelder e Morandini spiccano – tra i tanti – all’interno di una collettiva tenutasi proprio in questo spazio. Le attività proposte dalla galleria, diretta da Armando Nizzi, riunivano artisti operanti nel settore dell’arte geometrica, cinetica e concreta e tra i tanti affezionati c’era Bruno Munari il quale, nel 1968, firmò il Manifesto dei Multipli. Un testo che ci permette di raccogliere molti spunti in relazione al modus operandi dei nostri artisti. In questo spazio vengono messi in vendita “oggetti a funzione estetica” in tiratura limitata a 250 esemplari. Una rivoluzione copernicana del mondo dell’arte perché si apre una sorta di contestazione, nemmeno tanto tacita, nei confronti del pezzo unico. Ciò è sintomatico di quella trasformazione dei mezzi di espressione artistica che, dallo stato artigianale, slittano ad una produzione di tipo industriale in grado, attraverso la moltiplicazione, di smorzare l’aura sacra che circoscrive l’opera d’arte. Lo scopo? Renderla democratica, un oggetto che tutti possono permettersi perché l’intelligenza sta nel progetto e non nel pezzo unico. Tra gli esemplari proposti spicca anche un’opera di Glattfelder realizzata con “smalto e polistirolo”, un “oggetto costituito di nove moduli base (piramidi), con struttura cromatica di tre gradazioni del colore verde e blu. Animazione della superficie a seconda della posizione dell’osservatore, dell’angolo di incidenza e intensità della luce”. Il prezzo? Ventimila lire!

Ad avere un ruolo di spicco in questo sodalizio, amicale ed artistico, è stata poi la Galleria Carrain che, molto attiva nella Padova degli anni Settanta, costituì un punto di incontro fondamentale per i tre dove Morandini racconta che, oltre a Glattfelder - che aveva già avuto modo di conoscere in diverse occasioni in Italia, Svizzera e Germania - ebbe modo di incrociare Giancarlo Zen, Alberto Biasi e Giorgio Segato. Morandini e Glattfelder, assidui frequentatori dei vari simposi internazionali di arte concreta, si incontrarono poi nel 1977 in occasione del Simposio Arbeitskreis diretto dai critici Hans Heinz Holz e Attilo Marcolli. Le opere dei due artisti, assieme a quelle di Anton Stankowski, daranno poi vita all’esposizione “Das neue abstrakte Bilt”, tenutasi nel 1994 ad Immenstaad.

Il terreno entro cui queste figure iniziano a muovere i primi passi è quello fervente degli anni Sessanta dove molti artisti, mossi dall’esigenza di superare “i processi automatici e gestuali tipici della congiuntura informale”1, recuperano i valori concreti di un’arte che trova nelle avanguardie storiche e nei principi gestaltici un punto saldo di riferimento.

Il panorama italiano, del resto, viene inteso come uno degli scenari più interessanti; basti pensare, tra i tanti, al Gruppo N di Padova o al Gruppo T di Milano, la cui fortuna critica è testimoniata da numerose mostre internazionali e dall’attività svolta dal raggruppamento delle Nuove tendenze, con sede a Zagabria2. L’essere in gruppo implica un nuovo metodo di lavoro; l’artista non è più isolato ma diventa un tecnico della visione che collabora con altri professionisti al fine di creare un progetto nuovo, dove i linguaggi del singolo vengono messi da parte per lasciare spazio a un codice che, senza mezzi termini, possiamo definire scientifico. Apollonio, Glattfelder e Morandini si collocano a latere di questi e il dato interessante è che pur procedendo autonomamente, in alcuni casi, proseguono, in altri anticipano e in altri ancora completano le ricerche portate avanti dai collettivi in auge all’epoca. Infatti, pur non essendosi mai costituiti in un gruppo, nella loro ricerca individuale sono riusciti ad approdare a dei punti di tangenza tali che le loro operazioni, a mio avviso, sembrano porsi, a tratti, l’una come il completamento, e perché no, la sintesi dell’altra.

Ed è proprio al concetto di completamento che mi aggrappo per cercare di delineare la narrazione espositiva in oggetto. Partirei dalle operazioni di Apollonio che, non a caso, proprio nel 1965 partecipa alla rassegna “Nova Tendencija 3” inserendosi con perfetto equilibrio nei binari del movimento ottico cinetico internazionale. Dopo le lezioni all’Accademia di Belle Arti di Venezia con Giuseppe Santomaso, il suo interesse si rivolge all’arte razionale e sistemica ispirata a Piet Mondrian, Kazimir Malevic e ad altri rappresentanti della pittura geometrica dell’inizio del XX secolo3. Ciò che emerge dai suoi lavori, infatti, è una spinta logico matematica che deriva dalle avanguardie neoplastiche nel periodo prebellico, in particolare del Bauhaus. Gli interessi della sua ricerca, come lei stessa sostiene, sono rivolti “all’indagine nell’ambito di una forma primaria qual è, in questo caso il cerchio allo scopo di studiarne le possibilità strutturali per renderla attiva cercando il massimo risultato con la massima economia”. Luciano Caramel nel definire le sue operazioni, per quanto concerne obiettivi e metodi, parla appunto di “singolare essenzialità” dove il dinamismo ottico è ottenuto sia attraverso l’accostamento di colori, sia dotando la superficie di un movimento che può essere manuale o meccanico. Credo che le operazioni qui presenti, prive di dinamismo insito, mostrino come lo studio scrupoloso delle forme primarie da cui parte Apollonio sia uno dei nuclei che funge da trait de union con gli altri artisti. È la semplicità dei mezzi e della forma che le permette di costruire opere, per dirlo alla Dorfles, basate sulla “ottemperanza a precisi parametri percettivi”. Dove “l’applicazione di leggi ottico percettive ha permesso all’operatrice di realizzare una struttura dove lo spazio amorfo risulta attivato attraverso la messa in azione di proprietà percettive che sono, di solito nello spettatore, allo stato latente”. Se nella vita di tutti i giorni siamo spinti, per naturale inclinazione a “badare al sodo”, nell’approcciare le operazioni di questi artisti è possibile notare la mancanza di quei parametri mediante cui decodifichiamo gli oggetti nella quotidianità. Ed è proprio l’assenza di questi che costringe lo spettatore ad attivare altre funzioni percettive basate “non solo sulla sensorialità visiva, ma su altri aspetti sensoriali quali la batiestesia (sensibilità profonda), la stereognosia (sensibilità volumetrica) e forse altre forme di sensibilità tattile e cinetica”.

Prendiamo ad esempio operazioni, riconducibili agli anni Sessanta, come Torsione o Gradazione n. 43. Qui si manifestano una serie di cerchi concentrici che, partendo da un’origine primaria, sono posti in progressione equidistante. A questa soluzione, calcolata con perizia certosina, l’artista associa una diversa gradazione cromatica (sempre fedele alle sfumature ottenute dall’interazione tra bianco e nero) che conferisce alla composizione una sorta di vibrazione diffusa. L’osservazione prolungata di questi piani bidimensionali tradisce una chiara tensione volta alla tridimensionalità; il movimento dei cerchi, eccentrici o concentrici, si palesa a livello virtuale proprio grazie alla loro precisione cromatica e geometrica che permette all’osservatore di percepire una realtà dinamica. Ciò accade perché il nostro occhio fondendo queste tinte ne percepisce i colori adiacenti; quest’alterazione contribuisce alla creazione di quel fenomeno in grado di “attivare”, virtualmente, gli elementi di base. Le opere di Apollonio aprono lo sguardo verso una meditazione prolungata che, facendo riferimento a meccanismi riconducibili alla Gestalt, catturano lo spettatore non solo grazie al rigore compositivo ma anche grazie al senso di vertigine che inevitabilmente lo vede coinvolto.

Si arriva poi agli anni Settanta con le Interazioni ed Espansioni Cromatiche dove è possibile notare come, dal bianco e nero, l’artista si cimenti nella programmazione di sequenze date dall’interazione cromatica. Il rapporto figura sfondo in questo caso pare essere particolarmente funzionale alla resa percettiva. Dal formato statico della tela prende vita un nucleo da cui si genera una progressione graduale di fasce concentriche. Qui le gradazioni di colore entrano in contatto tra loro e alterandosi, per assonanza o dissidio, ci restituiscono un senso di leggero movimento. È come se l’utilizzo del colore fosse in grado di collocare le singole componenti dell’opera su piani diversi; il sistema che viene a crearsi non sembra più legato indissolubilmente al supporto ospitante ma, anzi, pare espandersi all’infinito. Ad avere un ruolo fondamentale nella fruizione - e quindi nella ricezione - di queste operazioni è la nostra posizione fisica. Se da una parte la luce può collaborare agli effetti insiti all’interno di queste, il nostro spostarci di fronte ad esse ci permette di cogliere, a seconda dell’angolatura, sia i colori nella loro individualità, sia quegli aloni che l’opera sembra emanare a causa della diffusione cromatica che si genera.

Credo che quanto riportato da Glattfelder nel corso di un’intervista possa esserci d’aiuto nel tentativo di comprendere i punti di tangenza ravvisabili nelle operazioni di questi artisti; “Ho negato le campiture uniformi e creato le superficie bicromatiche; ho negato le rette e le ho sostituite con linee oscillatorie e ho allestito mostre con “esperimenti esatti sulla percezione di cose e segni”.

Nonostante il suo linguaggio verta su di un rigore prettamente geometrico, sulla scia di quella che è stata l’influenza dei concretisti zurighesi, egli procede verso una rielaborazione personale, forte di quella che è stata la sua esperienza condotta in Italia. Non a caso, negli anni Sessanta – periodo in cui l’artista viveva a Firenze – uno dei suoi fulcri di interesse era appunto quello relativo all’arte optical e cinetico-programmata. A rendere peculiare il suo modus operandi è stata quella che lui definisce una “ricerca di giustificazioni teoretiche per rendere la mia posizione plausibile”. Egli stesso, infatti, tratta la storia dell’arte come una sorta di serbatoio da cui attingere per poi sviluppare un alfabeto personale. Credo che sintomatica di questa propensione sia l’attività teorica cui affianca quella di artista. Ricordo il suo Glossario dove l’artista ricostruisce quell’intreccio che vede da lato l’arte concreta e dall’altro il costruttivismo; capisaldi di riferimento nel suo modo di intendere e fare l’arte. Ciò a cui punta è una sintesi tra i due cardini che sfociano in una terza via d’uscita quella di un “costruttivismo metodico”, ovvero, come racconta Vittoria Coen, di “un percorso originale che superi le barriere dell’ortodossia intellettualistica, degli steccati ideologici e che salvi l’astrazione da pericolose derive magmatiche della ripetizioni di moduli e schemi già ampiamente approfonditi in passato”. Questo percorso lo fa attingendo ad alcuni scritti storico artistici, primo fra tutti il manifesto Art Concret pubblicato da Theo Van Doesburg nel 1930, la cui concezione di arte concreta viene intesa da Glattfelder come una vera e propria “visione” che ha poco a che vedere con quegli esercizi geometrici che ad oggi etichettano il termine. La vera rivoluzione stava nello spostamento del processo artistico dal significato al significante, dal contenuto al segno puro, del quale si esigeva che non significasse altro se non sé stesso. Si giunge così ad un’arte che presenta e non rappresenta, dove l’attenzione, per riprendere il pensiero di Husserl, è data alle cose stesse, così come appaiono. Lo stesso Glattfelder spiega che nell’arte concreta “l’idea di “composizione” è rimpiazzata da quella di “costruzione” e quella di “intuizione” da quella di “calcolo” dove le componenti soggettive e particolari dei movimenti precedenti cedono il posto a elementi oggettivi e universali”. Stessi elementi che, del resto, sono ravvisabili nei lavori dei suoi amici.

Come riprende Dorfles a muovere questi è la “volontà di giungere ad una forma d’arte la cui ragion d’essere fosse avulsa da ogni riferimento naturalistico e mirasse l’individuazione di forme pure”.

Ciò che chiaramente emerge è il fatto che il significato dell’oggetto viene rivelato, e quindi costruito, nel momento esatto in cui avviene l’atto percettivo. Penso ad operazioni embrionali come Dinamica diagonale Struttura reticolare ove già il titolo mi rimanda alle operazioni di Marina Apollonio o del Gruppo N. Nel caso di Glattfelder il ricorso ad un medium tradizionale, quale l’acrilico su tela, fa sì che si palesi ai nostri occhi una sorta di interferenza che sembra data dalla compenetrazione di più griglie sovrapposte con diversa angolatura e secondo distanze differenti. In fenomeno è generato grazie all’effetto di trasparenza dato dall’accostamento di strati pittorici opportunamente strutturati. Esattamente come in Apollonio – e come vedremo anche in Morandini - il senso di profondità è dato dalla gradazione cromatica con cui sono articolate le griglie compositive. Un altro fattore che trovo estremamente interessante nella poetica dell’artista è l’interesse nei confronti dell’anonimato che lo avvicina moltissimo ai gruppi citati in principio i quali, specialmente nelle fasi iniziali, erano soliti firmare collettivamente i loro lavori, mettendo da parte l’individualità dei singoli componenti. Se gli artisti ottico cinetici spesso e volentieri ricorrevano ai materiali provenienti dalla potenza industriale loro contemporanea, Glattfelder, fedele alla sua poetica, affida direttamente ai mezzi industriali la produzione di alcune componenti delle sue opere.

Il modulo piramidale, tratto distintivo delle sue operazioni, è infatti prodotto industrialmente e viene assemblato in forme e colorazioni variabili. Prendo in esame operazioni come Pyr NE3 e Pyr, strutture romboidali dove è ravvisabile una fuoriuscita dal piano bidimensionale grazie a delle strutture piramidali in PVC colorate. Qui all’utilizzo sapiente della forma geometrica, viene associata una ricerca cromatica che, agita gradualmente, dona alla superficie un senso di movimento che si palesa agli occhi del fruitore nel momento in cui interagisce con l’opera. Anche in questo caso, i nostri spostamenti fisici di fronte all’opera ci permettono di cogliere il senso di variazione che la abita. Ciò a cui approda sono una serie di lavori che, nel loro insieme, pur facendo leva sulle facoltà psicopercettive ed emotive dell’osservatore, necessitano di una conoscenza di quello che è il modus operandi dell’artista. Egli stesso afferma “per “costruzione” intendo un processo che conduce, attraverso tappe comprensibili e non contraddittorie, da un punto iniziale a un altro punto dapprima sconosciuto. Questa attività lascia una traccia ben visibile per ciascuno. Ed è proprio questa traccia che bisogna percorrere per sperimentare il risultato, a costituire l’opera d’arte. Nella costruzione di un’opera d’arte, dunque, grazie a un’azione concreta di collocazione e di omissione dei materiali ordinati passo dopo passo, si costituisce una struttura che è allo stesso tempo ordine rapportato a sé stesso e immagine del mondo”.

Se qui parliamo di forme concrete, è giunto il momento di chiudere il cerchio parlando di Morandini che, non a caso, ho lasciato per ultimo. Credo, infatti, che le sue operazioni rappresentino l’estensione perfetta di quella tendenza alla tridimensionalità che anima le operazioni di Apollonio e Glattfelder.

Egli si forma artisticamente nella Milano degli anni Sessanta, centro propulsore e propositivo di quelle tendenze citate in apertura e, come molti colleghi, sente l’esigenza di confrontarsi con l’industria emergente. Nel prendere confidenza con le sue operazioni e cercando di ripercorrere la sua carriera, mi pare sia ravvisabile uno slancio che la sola tridimensionalità non è in grado di soddisfare a pieno; sembra esserci un’altra spinta che rivela quella che definirei una “fame di spazio”.

Se Apollonio rimane fedele, nonostante la tensione volumetrica riconoscibile nelle sue operazioni, a quella superficie bidimensionale che pare stare stretta a Glattfelder, Morandini arriva a conquistare lo spazio, pur rimanendo fedele a sé stesso e alla propria poetica. Marcello, come Marina, inizia a muoversi nel campo della grafica e, approfondendone la conoscenza, ne coglie il senso concreto fino a giungere a quella che egli stesso definisce come tridimensionalità di un fatto grafico. Sono proprio le forme grafiche che, partendo da sperimentazioni su carta, pian piano si fanno presenza fisica e pulsante, fino a diventare dei veri e propri volumi in grado di interagire con l’ambiente circostante. I suoi progetti infatti partono quasi sempre da una forma, semplice o complessa, che egli sviluppa sia a livello scultoreo che architettonico. La forma viene trattata dall’artista come un essere senziente in grado di farsi portavoce di una data funzione che varia a seconda della realtà cui questa fa riferimento; l’arte, il design e l’architettura. Se in Apollonio il bianco e il nero sono un tratto distintivo cui tuttavia sono ammesse eccezioni cromatiche, per quanto riguarda il collega mantovano non sono concessi sconti. Il bianco e il nero, o meglio il rapporto geometrico ed amoroso, che si instaura tra i due, rimangono le coordinate essenziali in grado di dar vita alle sue operazioni in campo artistico. Ciò, infatti, dona il giusto rilievo a quello che è l’effetto di attivazione cui è in grado di giungere la forma che, nelle operazioni morandiniane, viene portata alle estreme conseguenze. Guardando le sue opere ciò che pensiamo è: “come ci è arrivato?”.

Le operazioni in mostra rivelano come la ricerca di Morandini spesso regali agli occhi dell’osservatore una trasformazione della figura che da corpo piano si fa tridimensionale e che, nel fare ciò, spesso sembra essere la traduzione scultorea delle Torsioni di Marina Apollonio. Se Apollonio conferisce un’anima al fatto grafico, Morandini gli dà un corpo. Riprendo quanto riportato da Mariastella Margozzi, quanto mai calzante che dice “il decisionismo del non colore esalta la forma, che non può essere rigorosa e quindi geometrica (…) bensì sempre dinamica e sospesa in una sorta di quid in espansione che la trascende e ne ipotizza eventuali possibili sviluppi”.

A tal proposito, le opere oggetto presenti in mostra rivelano come Morandini proceda verso una sorta di scissione di quelle che sono le parti costitutive della forma le quali, organizzate in bianco e nero, invitano il nostro occhio a percorrerne il rilievo. Procedimento vicino a Glattfelder se non fosse che, per quest’ultimo, l’apporto sacro dato dalla parete è ancora tangibile. Per Morandini il punto d’appoggio viene meno, le particelle che animano le sue operazioni dialogano con le possibilità offerte dallo spazio, facendo viaggiare il nostro sguardo in traiettorie, perlopiù circolari, che inglobano il dialogo intimo tra vuoto e pieno. È come se, osservando questi lavori, il nostro occhio fosse in grado di riconoscere i caratteri fisici dei materiali utilizzati e che, nel fare ciò, accendesse quel motore ottico in grado di innescare il moto perpetuo che le abita.

Mi ha colpito molto quanto riportato da Morandini nel corso di un’intervista, dove spiega come l’ovvio spesso possa sorprenderci. Ed è ciò che sta alla base delle operazioni di questi artisti che, spesso, mettendo in evidenza quell’ovvio che per ingenua negligenza ci sfugge, guidano l’osservatore nella possibilità di leggere la realtà in maniera differente, facendo i conti con i propri processi visivi e percettivi. Marco Meneguzzo sostiene che definire queste operazioni con il termine “optical” sia fortemente limitativo poiché ne riduce la ricerca ad un mero problema fisiologico di visione che, per quanto raffinato, non rende giustizia alle loro ambizioni fortemente legate agli ideali delle avanguardie. In effetti alla base di questo modus operandi, spesso condiviso, lo scopo della ricerca non era quello di dar vita ad una forma di astrazione in grado di generare semplice stupore quanto piuttosto “mutare radicalmente il modo di vedere, sia enfatizzando l’aspetto fisico e ottico del vedere, sia abituando il soggetto a decostruire la visione e a riformarla secondo dinamiche differenti dal passato”.

Ciò che accomuna le operazioni di questi operatori visivi è proprio la costruzione di un’immagine che, lontana da qualsivoglia riferimento mimetico, viene scomposta nei suoi elementi costitutivi che possono essere; colore, superficie, linea, forme primarie e griglie geometrizzanti. Si tratta di un processo che, seppur astrattivo, non rende il prodotto artistico un dato avulso dalla realtà e dalle sue categorie di riferimento. Al contrario, consente a chi osserva di prendere confidenza con i principi attraverso cui si costruiscono le immagini dove, nel passaggio dalla seconda alla terza dimensione, entra in gioco la nostra percezione, grazie alla quale l’opera trova il suo naturale compimento. Al concetto di multiplo che, come abbiamo visto, sottende questi lavori c’è un’altra componente che non va omessa; la nostra presenza fisica. A definire queste operazioni è il fatto che non sono necessarie conoscenze pregresse perché nell’approcciarle è come se rivelassimo qualcosa che vive, latente, dentro di noi. Si tratta di lavori che, a mo’ di specchio, sono in grado di raccontarci il modo in cui vediamo e viviamo il mondo. Il senso di vertigine di Apollonio, i gradini visivi di Glattfelder e le strutture di Morandini sono forti di una carica spirituale. Nel comprendere la realtà che ci circonda ci sono delle attitudini che la logica non sempre è in grado di giustificare. Ci sono delle azioni, connaturate, che attiviamo spontaneamente; se ho fame mangio, se ho sonno dormo, se ho sete bevo. La fruizione di queste opere, nonostante siano costruite su di una logica definita e definibile, è strettamente legata alla nostra risposta che, in modo innato, il nostro occhio e il nostro cervello sono in grado di elaborare. Ecco, credo che il concetto di multiplo non sia solamente legato al concetto di quantità. Si tratta di opere non più per i pochi ma destinate ad essere fruite, e capite, a livello universale. Nonostante la molteplicità che le vede prendere vita, il fattore che le definisce uniche è la nostra capacità di percezione individuale, che a seconda della propensione cui siamo soggetti, restituisce risultati sempre differenti.

Ciò che emerge dal raggruppamento delle opere di questi artisti è la matrice comune da cui questi si discostano per procedere verso una rielaborazione personale, forte della formazione che li vede protagonisti. Il dato curioso, tuttavia, è che la logica visuale che sottende la costruzione dell’immagine è la stessa; viene infatti meno l’apporto soggettivo dell’artista a favore dell’esito che, matematicamente, mira ad un’oggettività pura e priva di eccezioni.

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2 Cfr. Intervista di Davide Scudero a Lucilla Meloni, Le ragioni del gruppo, in “Arte e Oltre / Art and beyond”, n. 27, luglio 2020.

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